In Corea del Nord, anche un semplice telefono è tutt’altro che neutrale. I modelli distribuiti nel paese non si collegano a internet come avviene nel resto del mondo, ma a una rete interna chiusa, chiamata Kwangmyong, progettata per isolare i cittadini da qualsiasi contenuto non filtrato dal regime. All’apparenza, il dispositivo si presenta come uno smartphone ordinario, ma ogni elemento al suo interno, dalle app preinstallate ai file accessibili, è stato accuratamente selezionato per rafforzare la narrativa ufficiale. L’interfaccia utente, apparentemente funzionale, cela un sistema sofisticato di controllo e censura, in cui persino le funzioni base come stampa o riproduzione audio possono attivare meccanismi di monitoraggio.
La repressione non si limita ai contenuti. Anche il linguaggio diventa oggetto di manipolazione. Quando l’utente digita termini considerati inappropriati o culturalmente “contaminati”, come parole dello slang sudcoreano, il telefono interviene in automatico. “Oppa”, usato comunemente nella Corea del Sud in contesti affettuosi, viene sostituito con “compagno”, mentre “Corea del Sud” viene riformulata in “stato fantoccio”. In certi casi, il dispositivo mostra persino un messaggio educativo che ne spiega la correzione, rafforzando così il condizionamento ideologico. Questo tipo di autocensura linguistica digitale non è semplicemente un filtro: è una strategia sistematica per erodere l’influenza esterna e radicare la terminologia ufficiale.
A rendere ancora più inquietante il controllo esercitato da questi telefoni è la loro capacità di documentare l’uso quotidiano. Ogni cinque minuti, il dispositivo cattura in automatico uno screenshot dello schermo, che si tratti di un messaggio privato, una foto o una pagina di testo, e lo archivia in una directory nascosta all’utente. Questa funzione, apparentemente silenziosa, permette alle autorità di costruire un diario visivo costante dell’attività digitale dell’individuo, potenzialmente utilizzabile contro di lui. È una forma di sorveglianza passiva che, pur senza presenza fisica, esercita una pressione continua sul comportamento.
Le limitazioni imposte non si fermano al software. Il telefono è progettato per impedire qualsiasi forma di personalizzazione o interconnessione esterna. Non è possibile installare nuove applicazioni, né inviare file tramite Bluetooth. Non c’è accesso diretto a file system né libertà di modifica. Ogni elemento è statico, immutabile, orientato a garantire un ecosistema digitale chiuso. Anche la possibilità di connettersi a dispositivi di stampa viene mediata da controlli rigidi, in modo che ogni documento generato sia potenzialmente tracciabile. In sostanza, lo smartphone nordcoreano è un dispositivo di comunicazione solo in apparenza: nella sostanza è uno strumento di sorveglianza, dissuasione e conformismo.
Tutto ciò avviene all’interno di una più ampia strategia del regime, volta a consolidare il controllo sociale attraverso l’uso intelligente e opprimente della tecnologia. Dall’introduzione di nuove leggi che criminalizzano parole e comportamenti ispirati alla cultura sudcoreana, fino all’impiego di giovani pattuglie incaricate di monitorare lo stile di vita dei cittadini, il regime di Kim Jong Un ha mostrato una notevole capacità di adattamento nella repressione. A fronte della crescente circolazione di contenuti stranieri attraverso radio clandestine o supporti digitali contrabbandati, la risposta delle autorità è stata quella di irrigidire le barriere digitali, linguistico-culturali e morali.
In ultima analisi, il telefono nordcoreano non è solo un oggetto tecnologico: è il riflesso tangibile di un sistema politico ossessionato dalla stabilità e dal controllo. Ogni sua funzione, ogni sua limitazione, rivela una visione del potere che considera l’informazione non come diritto, ma come minaccia. È la trasformazione della tecnologia in arma silenziosa, che sorveglia senza parlare, ma sempre osserva.